Sempre di più si sente parlare di “dipendenza da gioco d’azzardo”, o di “gioco d’azzardo patologico” o ancora di “gambling”. Ma di cosa parliamo in realtà quando usiamo questi termini?
Tutti abbiamo la tendenza al gioco e ognuno di noi puó ritenersi un giocatore occasionale, magari scommettendo durante i Mondiali di calcio, o abituale, comprando un “gratta e vinci” alla settimana.
In questo caso il gioco è un innocuo passatempo che occupa una irrilevante parte della nostra vita. Nelle situazioni di dipendenza da gioco, invece, le cose cambiano radicalmente. Il gioco occupa la quasi totalità della vita del giocatore, o perché trascorre moltissime ore a giocare o perché, anche quando non sta fisicamente giocando, la sua mente è sempre rivolta al gioco, con il pensiero, che definirei ossessivo, di cercare nuove strategie per vincere.
Quello che scatta nella mente del giocatore va al di là del piacere del gioco, non è più il fine ludico che attira, quanto la possibilità di vincere ingenti somme e soprattutto la sfida di scoprire metodi segreti che gli permettano di dominare il gioco, scoprendo il sistema per vincere molto denaro e, in un’ottica di pensiero quasi magico, di vivere felice.
Il gioco d’azzardo, che sia reale o virtuale, trasporta il giocatore in un mondo magico, in uno stato mentale alterato, nella dimensione della speranza e dell’attesa, governato da una sensazione che possa accadere qualcosa di grandioso continuando a giocare perché la mossa che arriverà sarà quella vincente. È qui che sorge il problema perché questa convinzione che la fortuna stia per fare capolino è il motivo per cui il giocatore continua a giocare, scommettendo somme sempre più elevate senza riuscire a fermarsi, avendo la sensazione che stia per accadere la svolta, quella vincita grandiosa che gli permetterà, illusoriamente, di vivere in una nuova dimensione, scevra dai problemi economici, lavorativi e in cui predomini un senso di grandiosa potenza e di possibilità smisurate.
Mentre gioca, il giocatore, dominato da uno stato di eccitazione, cerca di trovare delle scuse razionali e delle spiegazioni logiche al suo bisogno di giocare incontrollabile e incontrollato. Il giocatore infatti vive in un mondo fittizio, ricco di vincite per poteri magici e in cui è onnipotente. Si estranea sempre di più da ciò che lo circonda e lentamente ma inesorabilmente si isola. Gli schemi mentali alterati lo portano a vedere il gioco come unica e principale attività della propria vita, con conseguente deterioramento fisico, sociale e familiare.
Ho parlato di “mondo magico” ed è una regressione al mondo dell’infanzia che avviene nel giocatore; un mondo in cui la bacchetta magica ha il potere di creare una realtà alternativa dove tutto è possibile e in cui regna l’onnipotenza e l’invincibilità. Si tratta di uno stato ipnotico, quasi onirico e di trance, una condizione fatta di illusione da cui è difficile uscire se non adeguatamente aiutati.
Ci sono situazioni in cui il giocatore non patologico si concede occasionalmente l’ingresso in questa situazione magica e infantile e facilmente ne esce, stabilendo un limite e un tempo che rispetta senza problemi.
Per altre persone invece le cose vanno diversamente: ci sono condizioni psichiche, sociali, affettive e familiari che possono incidere come elemento predisponente alla dipendenza da gioco, alla credenza magica e all’illusione di una realtà alternativa.
Quando si sviluppa una dipendenza da gioco interagiscono diversi fattori, tra cui vorrei evidenziare una problematica di tipo narcisistico, collegata all’autostima, delle difficoltà relazionali e una sottostante ansia che risulta difficile da controllare. Quando il mondo reale non appare soddisfacente o quando la fatica di intraprendere relazioni appaganti è molta, è facile scivolare in un mondo di illusione e speranza.
I significati di una vincita possono essere molteplici: gratificazione, cambiamento di vita, soluzione magica a tutti i problemi. In un’ottica psicoanalitica possiamo ricondurre il meccanismo sottostante alla dinamica del gioco d’azzardo ad una regressione in cui la gratificazione e la ricompensa arrivavano dai genitori, cioè all’infanzia. Una mancata vincita, in questo caso, può essere vissuta come un rifiuto o un abbandono e dunque spinge il giocatore a cercare di vincere per sentire di meritare l’amore di questo fantasma genitoriale che elargisce regali, in un mondo illusorio e infantile.
L’impulso a continuare a giocare nonostante le perdite accumulate assume un significato affettivo dove la vincita sperata rappresenta il riconoscimento tanto cercato da parte dei genitori.
Il giocatore patologico spesso durante l’infanzia ha provato sentimenti di inferiorità e impotenza che vengono compensati, in età adulta, da fantasie di grandezza e di onnipotenza. Capita sovente che all’inizio del gioco compulsivo si incontri il “big win”, una grossa vincita che innesca meccanismi grandiosi e sentimenti di sfida per superare la vincita con una ancor più sostanziosa.
Quando non vince, il giocatore è mosso dalla frustrazione che mette in moto il pensiero ossessivo e la conseguente coazione a ripetere: ci sono pensieri fissi e intrusivi, un controllo rigido ed eccessivo e rituali scaramantici: tutti questi meccanismi servono a tenere a bada, illusoriamente, l’ansia che deriva dall’imprevedibilità del gioco e dalla paura di perdere il controllo.
Il fatto che il giocatore continui a giocare anche quando ha già perso tutto si spiega poiché non si tratta di un piacere per l’atto di giocare e per il gioco in sé, quanto di un tentativo di appagare un bisogno d’amore e una carenza affettiva che derivano dall’infanzia.
Il denaro perde il suo valore intrinseco, la meccanicità alienante del pigiare un bottone o di posizionare delle fiches, di guardare delle carte o di lanciare dei dadi fanno perdere il contatto con la realtà, entando in meccanismo compulsivo in cui la perdita del controllo delle proprie azioni non è percepita se non quando si tocca il fondo, finendo tutti i mezzi a disposizione.
Il giocatore sa bene che sta rischiando di perdere tutto il suo patrimonio e di mettere a rischio la sua famiglia, il suo lavoro e i suoi affetti, ma non riesce a resistere alla compulsione del giocare che appare più forte dell’angoscia della perdita di quanto ha costruito negli anni. Subentrano, allora, sentimenti di colpa e di vergogna che generano ansia e desiderio di riparazione, ricadendo nell’idea che, se riesce a vincere, si risolveranno tutti i problemi. Questo è il circolo vizioso della dipendenza, che inficia tutti gli ambiti della vita, dalla sfera emozionale a quella relazionale, provocando un sempre maggiore isolamento.
L’idea sottostante è che non se ne uscirà mai o, al contrario, che basti mettere in campo la propria forza di volontà. La realtà non è questa, la dipendenza non è una scelta e dunque non la possiamo eliminare con il semplice esercizio della forza di volontà. Serve in primis riconoscere di avere un problema perché agire solo sul sintomo, cioè sulla dipendenza non ha senso dal momento che, come abbiamo visto, il sintomo ha un significato ben più profondo e radicato nell’infanzia e solo andando all’origine del vissuto che lo ha determinato è possibile eliminarlo.
Se hai una dipendenza, che sia da gioco o da qualsiasi altra cosa, non aspettare che sia troppo tardi prima di chiedere aiuto. Rivolgersi ad un terapeuta è l’unico modo per interrompere il circolo vizioso in cui sei caduto, probabilmente senza nemmeno accorgertene. E ricordati: vinci solo quando smetti!
Dott.ssa Giulia Causa