L’etimologia del termine “schizofrenia” deriva dal greco σχιζο- derivante dal verbo σχίζω ossia "fendere, scindere, separare" e da -phrenie ossia -frenia (-ϕρενία, connesso a ϕρήν ϕρενός che significa "mente"); letteralmente "mente divisa".
È luogo comune vedere lo schizofrenico come il classico matto, che sente le voci e ha le allucinazioni. Ma di cosa parliamo esattamente con il termine schizofrenia?
Il mondo schizofrenico non è un mondo totalmente lontano dal cosiddetto “mondo normale”: è una soluzione di emergenza che la persona che si ammala di schizofrenia ha trovato per sopravvivere. Quando il mondo perde il senso di ovvietà che lo caratterizza, quella sensazione di familiare che ci fa sentire in un ambiente conosciuto o comunque riconducibile alla nostra esperienza, si genera il panico. Trovarsi all’improvviso in un mondo dove non si riconosce più nulla come familiare, dove tutto assume una connotazione minacciosa, dove si perde il confine tra la persona e il mondo è un’esperienza devastante. Ecco allora che per ridare un senso al mondo compare il delirio, soluzione unica per rimanere nel mondo. Il delirio non è altro che la costruzione di un mondo “altro”, dove ciò che cambia non è il mondo in sé, ma il significato che la persona attribuisce alle cose del mondo.
Il delirio è dunque l’unico modo che la persona ha per sopravvivere e cercare di eliminare un delirio è, oltre che tecnicamente molto difficile, anche, a mio avviso, per nulla etico. È come voler imporre una visione del mondo ad una persona che sta cercando di sopravvivere, toglierle il salvagente che la tiene a galla.
Cercare di entrare nel delirio, senza disconfermarlo, permette di creare un legame, una relazione. E solo nella relazione c’è cura, nel senso proprio di “prendersi cura”, di creare un legame. Perché quello che fa ammalare è proprio la mancanza di legame.